lunedì 27 febbraio 2017

Alla ricerca della perfezione



Diversi autori hanno provato a fornire una definizione di perfezionismo, descrivendolo di volta in volta come:


  • la tirannia dei devo,
  • l'abitudine di richiedere a se stessi oppure agli altri un livello di prestazione più elevato di quello effettivamente richiesto dalla situazione,
  • l'avere standard che vanno oltre le proprie possibilità, che corrispondono ad obiettivi impossibili,
  • la tendenza a credere che per ogni problema esista una soluzione perfetta,
  • la convinzione che sia possibile agire senza compiere errori e che anche un minimo errore possa avere conseguenze molto gravi.


Il perfezionismo clinico, ovvero quello che arreca un disagio significativo nella vita quotidiana delle persone e non si riduce all'essere tendenzialmente ordinati e precisi, è stato definito (ad es. da Shafran e colleghi) come un'eccessiva dipendenza della valutazione di sé dall'inseguimento e dal raggiungimento di standard personali esigenti e autoimposti in almeno un dominio altamente saliente nonostante le conseguenze avverse.

Cosa significa questo?
  • Le persone perfezioniste, valutando se stesse a partire da un singolo ambito (dominio), rischiano che, qualora non riuscissero a raggiungere i loro standard troppo elevati, possa crollare il loro intero sistema di autovalutazione; va poi sottolineato che in alcuni domini è effettivamente impossibile avere risultati sempre positivi (per es. nello sport), e che concentrandosi su un solo campo questi soggetti riducono l'orizzonte dei propri interessi, rinunciando ad investire in altri ambiti importanti per la propria vita.
  • Le conseguenze negative del perfezionismo (isolamento, ansia, limitazione delle attività piacevoli, stanchezza, tensione muscolare, scarsa concentrazione, bassa autostima ecc.) vengono "sopportate" perché in qualche modo rappresentano per la persona una prova dello sforzo effettuato per raggiungere gli standard.
  • I suggerimenti degli altri in merito alla necessità di riposarsi e di "accontentarsi" vengono ignorati, e si continua necessariamente a perseguire gli standard che ci si è autoimposti.
  • Gli standard non sono solo molto esigenti, ma vengono via via innalzati.
  • Per la persona perfezionista non è importante solo il raggiungimento dell'obiettivo, ma anche e sempre la quantità d'impegno posto nell'inseguire la meta; se un determinato ambito non richiede un grande impegno, questo è senz'altro poco attraente.
  • Gli standard elevati vengono applicati ad ambiti di vita che hanno un particolare significato, una rilevanza per quel soggetto, non a tutti gli ambiti in maniera indiscriminata (possiamo così avere per esempio casi di persone esigenti in maniera assoluta sul lavoro, ma completamente disinteressate/trascurate in ambito domestico).
Vi riconoscete in qualche aspetto, o conoscete qualcuno che ha queste caratteristiche?

sabato 4 febbraio 2017

Va, pensiero


  
     Disarming innocence, Ph. John Wilhelm

Sembra quasi scontato affermare che i nostri pensieri sono, in effetti, semplicemente pensieri. Intangibili, inafferrabili, non raramente confusi, ma soprattutto non reali. Razionalmente lo sappiamo. Con il solo pensiero non possiamo certo diventare ricchi, o sentire il calore di un abbraccio, non possiamo aprire una porta e - anche se alcuni ci provano ripetutamente - nemmeno piegare un cucchiaino; su un pensiero non possiamo camminare o saltare, non possiamo ripiegarlo e poi mettercelo in tasca: non ha nulla di concreto. Eppure...


...Eppure molto spesso, quando abbiamo pensieri di un certo tipo su noi stessi, crediamo che si tratti della realtà. Specialmente se è da molto, molto tempo che ci capita di avere proprio quel genere di pensieri, se ci succede di ritornarci su più volte nel corso della giornata, se quei pensieri contengono parole che ci sono state ripetute di frequente, magari quand'eravamo molto piccoli e stavamo ancora imparando a conoscere il mondo, gli altri e noi stessi: se ci è capitato sovente, ad esempio, di pensare di essere giudicati dagli altri come imbranati, timidi, ridicoli, allora ci riterremo imbranati, timidi e ridicoli.

La nostra mente è capace di elaborare un gran numero di pensieri, alcuni più utili ed alcuni irrilevanti, alcuni complessi ed alcuni più fugaci;  molto spesso questi pensieri si agganciano alle esperienze del nostro passato, anche le più lontane, esperienze a volte molto spiacevoli, ripetutamente spiacevoli e in qualche caso decisamente traumatiche. Tali eventi, vissuti in un'età in cui eravamo oggettivamente in una condizione di dipendenza e di vulnerabilità rispetto agli adulti, vengono di frequente rivissuti nel pensiero con la stessa forza e lo stesso disagio sperimentati da bambini. Quando quelle esperienze riemergono ci sentiamo di nuovo come se fossimo di fatto ancora piccoli, indifesi, incapaci di reagire in modo diverso, adulto: ci percepiamo come se fossimo adulti deboli come bambini... Dimenticandoci per un attimo che siamo cresciuti, che ora siamo nel presente, non nel passato, e che siamo stati, ma non siamo più quelli di allora.

 Alcune volte la sofferenza legata a questi pensieri è così grande da farci dimenticare cos'è successo esattamente quando abbiamo cominciato a sentirci così, gli episodi svaniscono dalla nostra memoria e ancora di più tendiamo a confondere passato e presente, convincendoci che ora siamo sbagliati, inadeguati, fuori posto. Che quello che pensiamo riguarda proprio il modo in cui ci sentiamo adesso e in cui veniamo visti dagli altri. Tenteremo di scacciare questi pensieri portatori di emozioni negative, faremo di tutto per "non averli più" e quindi non sentirci così, ma ci scontreremo con un problema fondamentale: i pensieri non si possono sopprimere.

Più tentiamo di cancellare un pensiero, e più quello si imporrà alla nostra attenzione, esattamente come avviene  - per esempio - ad un operaio che debba selezionare la frutta che gli passa davanti su di un nastro trasportatore; proprio nel tentativo di individuare i frutti non buoni, per poi eliminarli, l'operaio sarà continuamente concentrato sul confrontarli tra loro alla ricerca di possibili difetti. In altre parole, l'attenzione andrà tutta a ciò che si vorrebbe escludere. Per chiarirlo ancora meglio con l'aiuto di un vecchio esperimento: se adesso io vi chiedessi di non pensare ad un rinoceronte con le ali di libellula?

   Learning to fly II, Ph John Wilhelm

Non solo tentare di cancellare i pensieri sgradevoli è inutile (ottiene, anzi, il risultato opposto): se per noi quei pensieri corrispondono alla realtà, di fatto ci ritroviamo a fuggire da qualcosa che temiamo in quanto doloroso o fastidioso, ma perdiamo l'occasione di sperimentare un atteggiamento nuovo, più maturo verso quei pensieri e verso le esperienze legate ad essi. Continuiamo a reagire come se fossimo ancora dei bambini vulnerabili e non gli adulti che siamo ora. Come se quei pensieri ci obbligassero a stare ancora male come allora, come se non ci fossero alternative.

È davvero importante, perciò, che ci esercitiamo a distinguere i nostri pensieri - soprattutto quelli fastidiosi - dalla realtà, imparando ad accettarli per quello che sono, appunto: soltanto pensieri. La mindfulness ci aiuta a fare questo portandoci a focalizzarci sulla nostra esperienza sensoriale in maniera consapevole e a porre attenzione al presente, con un atteggiamento di curiosità e di accoglimento. Questo ci permette di sperimentare un tipo di rapporto completamente nuovo non solo con i nostri pensieri, ma con noi stessi e con gli altri.