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giovedì 30 ottobre 2014

Andare dallo psicologo: aspettative e leggende



Nonostante in Italia la Psicologia sia una disciplina ben radicata e "familiare", essendo entrata nel tempo a far parte di svariati ambiti della vita quotidiana di ognuno di noi (ospedali, scuole, aziende, sport, ecc.), e sebbene sul territorio del nostro Paese sia presente un elevatissimo numero di psicologi, esistono e resistono molti luoghi comuni e preconcetti rispetto a quello che accade realmente, nell'occasione in cui ci si rivolge  ad un professionista.
La conseguenza peggiore di queste false credenze e dei dubbi che ne derivano è che molto spesso la persona che necessita di aiuto, non essendo convinta di poter trovare una risposta adeguata al suo disagio,  tende a rimandare la decisione di richiedere una consulenza, tentando in vari modi di risolvere da sola i propri problemi... Ma senza sapere come fare, cosicché le difficoltà nel frattempo si protraggono e convivere con esse diventa ogni giorno più pesante.

Vediamo dunque quali sono queste "leggende" che ruotano intorno alla figura dello psicologo ed al suo lavoro, e come possiamo sfatarle:

  • "Non ho bisogno che qualcuno mi dia consigli, è solo questione di forza di volontà, me la cavo da solo". A tutti noi capita, in alcuni momenti della vita, di aver necessità di un confronto o di un supporto esterno: questo non significa essere persone "deboli" o con poca forza di volontà, ma che in una data situazione per noi problematica può esserci estremamente utile avere un punto di vista diverso dal nostro, ed anche esperto, che sappia guidarci nella ricerca di soluzioni utili e positive per noi.
  • "Perché dovrei andare dallo psicologo? Non sono mica matto". Questo preconcetto, molto radicato, si fonda su due errori: il primo è quello che porta a confondere la figura dello psicologo con quello dello psichiatra; il secondo consiste nel pensare che il lavoro dello psicologo sia centrato esclusivamente sulla psicopatologia, e non abbia al contrario molto più spesso a che fare con la promozione del benessere.
  • "Non voglio che qualcuno venga a sapere che vado da uno psicologo". Lo psicologo non è diverso, in effetti, da qualsiasi altro professionista dell'ambito sanitario: contestualmente al suo operato, deve rispondere ad un Codice Deontologico ed è tenuto a garantire la privacy e a proteggere i dati sensibili di chi si avvale delle sue prestazioni, rispetto alle quali vige il segreto professionale.  Data perciò per certa questa tutela, chi desidera che nessuno -al di là dello stesso professionista-  venga a conoscenza del fatto che si sta rivolgendo ad uno psicologo, dovrà avere cura in prima persona di non fornire a nessuno quest'informazione.
  • "Sarò costretto a stravolgere la mia vita e non voglio". Quando proviamo un disagio di tipo psicologico, a prescindere da quanto questo possa essere grave e da quanto possa influire sulla nostra vita quotidiana, significa che qualcosa in effetti ha bisogno di essere cambiato, che stiamo continuando ad adottare delle strategie non funzionali rispetto a determinate situazioni. Lavorare su questi aspetti non significa perdere di vista se stessi o sconvolgere la propria esistenza, ma apprendere nuove modalità di gestione delle proprie problematiche, trasformarsi nel senso di diventare più flessibili e capaci di scegliere di volta in volta la soluzione migliore per sé, per il proprio benessere.

  • "Poi mi toccherà andarci per degli anni". Questa credenza deriva dall'idea che comunemente si ha della Psicoanalisi, l'orientamento terapeutico probabilmente più noto alla maggioranza delle persone; ma si tratta, appunto, solo di uno tra i possibili orientamenti esistenti. La durata di un intervento psicologico dipende non solo dall'approccio seguito dal professionista (sul quale è sempre importante informarsi), ma in primo luogo dal tipo di problematica per cui si richiede la consulenza: in alcuni casi possono essere sufficienti pochissime sedute, in altri invece (dopo una prima fase di valutazione) si può scegliere di intraprendere un percorso più articolato e prolungato. Solo per alcuni tra coloro che si rivolgono allo psicologo si rende in effetti opportuno un lavoro di tipo psicoterapeutico, che compete -appunto- allo psicoterapeuta, il quale è appositamente formato in uno specifico approccio: lo psicologo non è abilitato a fare psicoterapia.
  • "Mi costerà un sacco di soldi". Come si diceva prima, è un errore pensare che si debba necessariamente affrontare un percorso lungo o di durata indefinita, e di conseguenza anche oneroso dal punto di vista economico. Molto spesso non è così. Bisogna poi pensare che, nonostante nell'immaginario lo psicologo sia frequentemente visto come qualcuno che, essenzialmente, "è lì per ascoltare e comprendere", si tratta sempre di un professionista della salute, che (come potrebbe essere per un dentista, un ortopedico, un cardiologo ecc.) mette le sue competenze al servizio del benessere della persona. In questi tempi, non facili un po' per tutti sotto il profilo economico, sovente sono proprio le spese dedicate alla salute psicologica le prime sulle quali si cerca di risparmiare; queste vengono infatti percepite come non essenziali rispetto ad altre. Purtroppo però questi costi che si vorrebbe evitare di sostenere, difficili peraltro da quantificare sul momento (non è così immediato riuscire ad immaginare quanto potrà costarci nel tempo, ad esempio, una depressione non curata, per l'impatto che alla fine avrà sulla nostra vita sociale e lavorativa, oltre che su noi stessi in prima persona), si rivelano più elevati a lungo termine, quando si sceglie di non occuparsi del problema. Ecco che allora decidere di rivolgersi ad uno psicologo, anche in ottica di prevenzione, può tradursi in realtà in un notevole risparmio.


  • "Preferisco prendere una pastiglia e via, non mi va di parlare dei fatti miei con uno sconosciuto". Anche se è vero che ognuno è fatto a modo suo e per alcuni è senz'altro più difficile parlare di sé, descrivendo i propri pensieri e le proprie emozioni, e nonostante in alcuni casi sia senz'altro utile -talvolta indispensabile, se si è in una fase particolarmente critica- affiancare all'intervento psicologico o psicoterapeutico una terapia farmacologica (su prescrizione medica), non possiamo sicuramente affermare che il trattamento farmacologico costituisca di per sé un'alternativa ad un lavoro di tipo psicologico. Una cosa è alleviare dei sintomi che in quello specifico momento comportano un disagio anche importante, un'altra comprendere come sia possibile modificare alcuni specifici pensieri e/o comportamenti e gestire in prima persona quello stesso disagio, evitando di incorrere successivamente nel medesimo problema. Senz'altro un percorso psicologico o psicoterapeutico richiede di mettersi molto più in gioco, rispetto all'assunzione di un farmaco: ma la differenza in termini di impegno si riflette negli esiti.
  • "Cosa ne può capire lo psicologo di come mi sento? Solo io so che quello che sto passando". Sicuramente ognuno di noi è unico, e vive le proprie esperienze in una maniera peculiare; è vero però allo stesso tempo che ci sono situazioni che tendono ad accomunare le persone, che quasi tutti noi attraversiamo (un lutto, una sconfitta, le conseguenze di una malattia, una fase di forte stress, una separazione, difficoltà a livello lavorativo...); questo, insieme alle capacità relazionali che possediamo come esseri umani, e nel caso dello psicologo con il supporto di una preparazione specifica, ci permette di entrare in rapporto proprio per mezzo dell'esperienza che viene raccontata. Lo psicologo può comprendere ed allo stesso tempo portare il suo contributo in quanto "altro", con un suo punto di vista e la proposta di strategie alternative rispetto a quelle adottate fin lì dalla persona che ha richiesto il suo aiuto.
  • "Chi mi dice che otterrò dei risultati? Probabilmente sarà solo una perdita di tempo, oltre che di denaro". Lo psicologo (o psicoterapeuta) potrà garantire sul suo impegno nella relazione di aiuto, e sul fatto di possedere le competenze necessarie rispetto al problema per cui viene richiesta la consulenza; potrà inoltre fornire dei dati di efficacia, condivisi dalla comunità scientifica, che permettano al paziente di avere un'indicazione su quelli che potranno essere gli esiti di uno specifico trattamento. La parte restante sarà data dalla qualità della relazione, dal suo potenziale trasformativo: questo, chiaramente, è un aspetto che richiede di accettare un margine d'incertezza e non si può definire a priori, poiché si sviluppa e si definisce nel tempo.

lunedì 31 marzo 2014

Che cos'è l'assertività?



Gli studi sul concetto di assertività si sono inizialmente sviluppati (a partire dalla fine degli anni '40 del secolo scorso) negli Stati Uniti e più in generale nei paesi anglosassoni, ovvero in contesti culturali contraddistinti dal pragmatismo e dall'orientamento al risultato; in Italia, paese dalle radici umanistiche e di ben diversa tradizione, il tema ha incontrato una certa resistenza per diverso tempo e soltanto negli ultimi anni ha iniziato ad essere investito d'interesse, trovando poi peraltro largo utilizzo in particolare nell'ambito della formazione aziendale e della comunicazione.

Esaminiamo le possibili definizioni del termine "assertività":



Quali sono le differenze tra un soggetto assertivo ed uno che non lo è? Cominciamo con l'imparare a conoscere e... riconoscere i diversi stili comunicativi utilizzati dalle persone:


-Stile/atteggiamento aggressivo

Non modifica le sue opinioni

Non ascolta gli altri, anzi li interrompe spesso mentre parlano

Non chiede "scusa" se commette un errore e non ammette la possibilità di essere nel torto

Vuole che gli altri si comportino come lui desidera

Pensa che gli altri siano meno capaci/efficienti ed abbiano bisogno di forti sollecitazioni

Giudica gli altri e li critica

Colpevolizza ed inferiorizza gli altri


-Stile/atteggiamento passivo

Ha difficoltà a fare e rifiutare richieste

Dipende dal giudizio altrui

Teme spesso di sbagliare, non si sente all'altezza

Si sacrifica più di quanto gli viene richiesto e non si sente gratificato

Ritiene che gli altri siano migliori di lui

Si sente in colpa se occasionalmente reagisce in modo aggressivo con qualcuno

Si sente a disagio con le persone che non conosce bene


-Stile/atteggiamento assertivo

E' capace di comunicare le proprie emozioni e i propri stati d'animo

Non si lascia manipolare dagli altri

Non giudica e non inferiorizza

Ascolta gli altri, ma sa dire di no e assumersi la responsabilità delle sue decisioni

Ricerca la collaborazione altrui

Riconosce i propri errori ed è disponibile a cambiare opinione

martedì 15 ottobre 2013

Sviluppare la motivazione

Quando ci sentiamo depressi e senza energie facciamo un'estrema fatica anche solo a pensare di metterci a fare qualcosa. Meditiamo su una serie di attività da intraprendere, ma non sentiamo entusiasmo per nessuna di queste; trascorriamo i nostri giorni avvolti in una sorta di torpore, come se fossimo in letargo in attesa di tempi migliori (in attesa che migliori il nostro umore, che migliori la nostra vita...) e tendiamo a restare in attesa di trovare la motivazione, che però sembra non giungere mai.
Pensiamo che fare qualcosa ci costerebbe troppa fatica, ci sentiamo incapaci di agire e per questo ci colpevolizziamo, alimentando un circolo vizioso che ci rende sempre più depressi. Come uscirne?

Proviamo a "pensare al contrario", rovesciando per così dire la motivazione. Immaginiamo di decidere di fare alcune cose nonostante questa non ci sia: compiliamo un elenco di attività che di solito ci fanno stare bene, e scegliamo di praticarle ogni giorno per una settimana, senza attendere di "sentircela". Facciamole, e basta. La convinzione di "dovercela sentire", quando pensiamo di metterci in azione, è infatti una vera e propria trappola, e ci blocca: la nostra immobilità è causata proprio dal fatto che in questo caso il nostro comportamento è conseguenza della motivazione (che non c'è). Possiamo però, come dicevamo, ribaltare il ragionamento e trasformarci in persone che creano la motivazione tramite il loro comportamento: se ci pensiamo, molte volte ci sarà senz'altro capitato di fare qualcosa senza particolare convinzione, o in qualche caso anche forzatamente (per esempio uscire con gli amici, oppure andare ad allenarci), e poi accorgerci alla fin fine di star meglio, per il fatto di aver comunque fatto qualcosa di concreto per il nostro benessere.

Il dire a noi stessi che "non siamo motivati" a fare qualcosa che peraltro ci porterebbe dei vantaggi (aggiungendo spiegazioni come "è davvero difficile", "non sono pronto a farlo", "non ne vale la pena" ecc.) è in fondo solo un altro modo per affermare che non ne abbiamo voglia. Ma un conto è "avere voglia" ed un altro è "essere disposti" a fare una determinata cosa. E noi siamo in gradi di disporci a fare qualcosa, anche se non ci attira. Se ci guardiamo indietro, ritroveremo tante occasioni in cui abbiamo dovuto superare un certo livello di disagio per agire, eppure l'abbiamo fatto, utilizzando la nostra capacità di autodisciplinarci; in seguito ci siamo sentiti più forti, più fiduciosi, sicuramente più determinati.

Ricordare episodi come questi ci riporta alla mente che per ottenere dei miglioramenti dovremo sempre, necessariamente, mettere in conto una certa dose di fatica e difficoltà. Per perdere peso dovremo fare attività fisica; per affrontare le nostre paure ci dovremo mettere nella condizione di sperimentare ansia, ecc.; diventa dunque importantissimo concentrarci sulla nostra capacità di sopportare il disagio, o meglio di vederlo come disagio costruttivo. Ecco alcuni semplici esercizi che possono aiutarci:
  • ripensiamo alle attività che in passato non avevamo voglia di intraprendere, ma in cui ci siamo messi in gioco comunque;
  • colleghiamo il disagio all'orgoglio: tra le cose che abbiamo fatto nella vita, ciò di cui andiamo fieri ha comportato un certo livello di disagio e fatica?
  • attribuiamo a noi stessi una quota di disagio: riflettiamo su come le cose che facciamo nonostante l'assenza di voglia siano collegate a degli obiettivi;
  • ricordiamo che il disagio è sempre, in ogni caso, temporaneo.
Bibliografia:
Robert L. Leahy (2012), Come sconfiggere la depressione. Un percorso di autoaiuto. Milano, Raffaello Cortina